28.2.09

Storia di un domatore di tigri

E' un giorno qualunque, e nella giungla c'è un domatore di tigri. Come tutti i giorni della sua vita, sta cercando una tigre. Una qualunque, non importa: è il suo lavoro. E come tutti i giorni, anche oggi vede una tigre.

Il fatto è che, oggi, la tigre che vede è diversa – non sa perché, ma non c'è nessun dubbio. Saranno gli occhi, forse. Da quegli occhi si capiscono due cose: la prima è che anche lei ha visto il domatore. E già questo può essere un problema. La seconda è che, per qualche motivo, la tigre sa di essere diversa. E anche questo è decisamente un problema.

Diciamo subito che il domatore non è uno stupido, e fa la sola cosa sensata che ci si aspetterebbe da lui: scappa. Perché una tigre è sempre una tigre, e lui ha già abbastanza cicatrici.

Il giorno dopo è sempre un giorno qualunque, e nella giungla c'è lo stesso domatore di tigri. Solo che oggi non sta cercando una tigre qualunque. Forse è un problema di tutti gli esseri umani, forse è un domatore un po' diverso dagli altri; non lo so, sinceramente. Ma quello sguardo lo tormenta. Quello sguardo vale un rischio un po' più grande, anche solo per curiosità morbosa. Per questo, da oggi, il domatore è una specie di capitano Ahab: le tigri per lui non esistono più. Le tigri sono una sola tigre.

Quasi tutto nella vita succede per caso. Questo è un fatto. La cosa strana è che, di tutto quello che può succedere per caso, qualche volta la scelta cade sugli eventi più pericolosi – e con questo voglio dire: gli eventi che possono cambiare tutto. Di solito le persone se ne ricordano. Altre volte, invece, non c'è nessuna scelta. E' come vedere acqua che scorre: basta guardare la terra per capire dove andrà a finire. Magari prenderà strade contorte, ma la destinazione è certa. Va sempre verso il basso.

In questa storia i fatti sono acqua. Il tempo passa, ma il domatore – una parte di lui, almeno – sa che prima o poi vedrà di nuovo la sua tigre. E infatti, succede.
Il problema ora è che fare. Perché la tigre, che sa di essere diversa, e che anche questa volta vede il domatore, non è aggressiva come sembra. Lo studia. Lo guarda da lontano. Si avvicina, lentamente. E non smette mai di guardare.

Ogni giorno si vedono, per qualche tempo. Il domatore sa di volere quella tigre; la tigre, invece, non sa nemmeno cos'è un domatore. Per cui se ne sta lì vicino, e lo guarda. Non troppo vicino: l'unica cosa che la tigre sa è di essere una tigre.

Il domatore decide, a questo punto, di iniziare a fare il suo lavoro. Prende la bistecca migliore che ha, e la offre alla tigre. Senza fretta. La tigre, con cautela, la mangia, e capisce immediatamente che non ha mai neanche immaginato che esistesse qualcosa del genere. Non solo: sa anche che non ne troverà mai da nessun'altra parte. Per cui torna il giorno dopo. E il giorno dopo ancora.

Finché non arriva il momento: bisogna domare la tigre. E' questo che fanno i domatori. A questo punto, però, non tutto va come dovrebbe. La tigre sarà anche curiosa, sarà anche una tigre diversa, ma ha un istinto e non può scegliere di ignorarlo. Nella sua mente primitiva ora il domatore è un amico e una minaccia allo stesso tempo. Questo crea molta confusione. E una tigre, che è un predatore e non spicca troppo per intelligenza, ha un solo modo per eliminare questa confusione: dividere il mondo in due categorie – commestibile e non commestibile. Non ci vuole molto a posizionare una strana scimmia in questo ordine cosmico.

Brutto giorno per il domatore: oggi torna a casa senza una tigre e senza un braccio. Staccato di netto. Sopravviverà per miracolo (forse). Ma qualcosa, dentro di lui, continua a cercare. Qualcosa di più forte dell'istinto. Più forte di tutto. Per cui si ricomincia da capo.

La tigre, stavolta, è più cauta nel mangiare. Ma lo fa lo stesso: quelle bistecche sono così perfette che è impossibile farne a meno. Sono diverse. E nonostante tutto, inizia a pensare che forse c'è un modo di convivere con l'uomo senza doverlo uccidere, o essere uccisa. Deve esserci per forza. Ma ha ancora paura. Gli esseri umani sono intelligenti; gli esseri umani mentono.

Il domatore, dall'altra parte, sa di poter aspettare. Ha pagato già troppo per quella tigre; non è più il suo lavoro. Nell'essere mangiati – per quanto la cosa possa risultare seccante – si stabilisce un legame di sangue. Predatore e preda sono fusi; ballano insieme. E' una cosa che succede da sempre, niente di strano.

Certo, ha qualche dubbio. Ha senso andare avanti? La seconda volta potrebbe andare ancora peggio – dopotutto quella è una tigre, e ha mangiato il suo braccio. L'ha vista, mentre mangiava. E' un mostro. La tigre è il male. Forse la ucciderà. Forse si farà uccidere, invece. Forse è più confuso della tigre.

Per un motivo o per l'altro, comunque, ci riprova. E va molto, molto male.

Lo ritrovano dopo un po', in una pozza di sangue. Ma non è morto: un po' mangiucchiato qua e là, ma ancora vivo per miracolo. Qualcuno pensa, dopo averlo visto: è un avvertimento. Una specie di seconda opportunità. E' Dio che ti guarda in faccia e ti dice figliolo, io ti ho avvisato; ora però te la sbrighi da solo.

Passa un po' di tempo. I suoi colleghi domatori lo tengono d'occhio e gli danno pacche sulle spalle. Intanto pensano: è bruciato. Nel senso che è finito, per quel mestiere. Qualcuno glielo dice – prenditi un gatto e trovati un altro lavoro. Magari in ufficio. Rilassati. Almeno per un po'.

Fino a quando, una notte, la tigre va da lui. Non se ne accorge nessuno. Si avvicina al loro circo, entra nella sua tenda, e resta lì. Più tranquilla di un gatto. Il domatore è terrorizzato. Non si scherza dopo aver visto la morte in faccia. Ora ha solo paura. Ma per qualche strano motivo non riesce a sparare alla tigre. E' lì, ai piedi del suo letto, inerme. Lo guarda ogni tanto come se niente fosse.

Dal giorno dopo la tigre è nella sua gabbia. E' la migliore del circo, più grande anche della tenda del domatore. Ogni giorno ha il cibo migliore, e in cambio fa i suoi esercizi. Docile. Si prepara allo spettacolo. Tutti li guardano con sospetto: un mostro feroce che ora è un agnello, e il suo domatore senza un braccio. Non si era mai visto niente del genere. Fa paura come il buio. E non serve dire al domatore che è un pazzo, e che l'unico posto per quella tigre è la giungla o una fossa; è come se non esistessero più separatamente. Il domatore è la tigre, e viceversa.

Lo spettacolo è magnifico. Centinaia di persone, nel circo più famoso del mondo, a vedere due parti di uno stesso corpo, la chimera uomo-tigre, che ballano insieme nel cerchio di fuoco. Tutti, nessuno escluso, tornano a casa con qualcosa dentro. Qualcosa in più, o qualcosa in meno. Cambiati, comunque.

Poi, come sempre, il tempo passa, e anche gli spettacoli. A quello strano miracolo, lentamente, gli altri nel circo si abituano bene, e girano il mondo tutti insieme per anni. Di sera, ogni tanto, il domatore si avvicina alla gabbia, e guarda la sua tigre. Certe volte in quegli occhi vede l'ombra del predatore incontrato nella giungla; sono come li ha visti la prima volta, ma sono anche diversi in un modo che non riesce a capire. Altre volte li osserva con odio, e pensa al suo braccio, e a tutto quello che nella vita non ha potuto fare a causa di quel maledetto animale. Altre volte ancora ha paura, perché gli sembra di vedere, di sfuggita, una strana luce omicida. Nascosta. In attesa.

Poi va a dormire. Sogna spesso di quando tutto era ancora possibile; o di una tigre che lo divora nel sonno. Nello stesso momento, poco lontano, la tigre si addormenta tranquilla, perché vedrà al suo risveglio – anche in una città diversa, anche in un mondo diverso – il domatore tornare dalla sua tenda. Sa che è lì per occuparsi di lei. Di notte sognerà la giungla.

12.12.07

La Giornata Tipo dell'uomo medio

Sette e quindici; suona la sveglia e l'uomo medio si alza.

Anzi, no. La spegne (momentaneamente), perché ha sonno.

Sette e trenta; suona la sveglia e l'uomo medio si alza. Stavolta si alza sul serio.

Guarda fuori. Errore: niente fuori, oggi. Solo nebbia. Il mondo è una tazza di latte freddo. A proposito, fa proprio freddo. Cristo che freddo.

L'uomo medio accende la luce. Niente luce. È vero, il neon si è fulminato l'altro ieri. Pazienza. Brancola fino al bagno; accende la luce.

Niente luce.
È vero, il neon del bagno si è fulminato anche lui. Ieri.

Pazienza, cazzo.

L'uomo medio è giovane e forte, ma ha un freddo cane anche con il riscaldamento acceso. Si sfila il pigiama di pelliccia di orso grigio in via di estinzione e si rannicchia tremante nella doccia, implume e illuminato dalla fioca e lontanissima luce di uno dei pochi neon sopravvissuti (per il momento) alla misteriosa epidemia domestica.

L'uomo medio perde se stesso nell'antica arte del trovare l'esatta posizione, dell'ampiezza di sei micron, nella quale il rubinetto della doccia si degna di fornire acqua ad una temperatura compatibile con la vita umana. Verso le otto, esausto, si dichiara sconfitto ed inforca l'accappatoio, lottando inutilmente contro un'ipotermia inevitabile.

L'uomo medio, ovviamente, è miope. Fatto che comporta, in questo specifico frangente, il raro privilegio di infilarsi le dita negli occhi per mettere delle lenti a contatto che lui non porta assolutamente per questioni estetiche.

La soluzione sterile per lenti a contatto morbide, alle otto di mattina, ha sulla cornea dell'uomo medio lo stesso effetto del succo di limone.

L'uomo medio, ovviamente, è anche diabetico. E, avendo lui avuto cura di distruggere la sua automobile la settimana scorsa, questo pone degli interessanti interrogativi, come ad esempio:
  1. "Devo praticare la mia comoda iniezione di insulina prima di uscire, come faccio di solito?"
  2. "Ma la camminata di circa sette minuti per arrivare al bar - visto che non ho la minima intenzione di deprimermi bevendo nescafè a casa - non ne anticiperà forse l'effetto, portandomi ad una morte certa?"
  3. "Dovrei allora praticare la mia comoda iniezione all'interno del suddetto bar, sostenendo con spavalda aria di sfida gli sguardi attoniti degli ignari quanto retrogradi avventori?"
Otto e trenta; l'uomo medio, che in fondo non ha tempo da perdere in stronzate, pratica la comoda iniezione del cazzo ed esce, decrescendo di un epsilon il valore complessivo della sua autostima.

Dovendo peraltro affrontare un fatto inequivocabile: e cioè che, in confronto al mondo esterno, il suo appartamento è praticamente un resort alle Maldive con palme, piscina, campi da tennis e un cuoco italiano di nome Gaetano il quale socializza continuamente con clienti, italiani, che in realtà odia nel profondo del cuore.

L'aria, all'esterno, è indistinguibile da una secchiata d'acqua in faccia (cosa che effettivamente distoglie l'uomo medio dalle sue esotiche riflessioni) e tutto, complessivamente, è indistinguibile da una puntata di Twin Peaks.

Alle nove l'uomo medio, divorato avidamente il suo cornetto alla crema accanto a italico cappuccino, è in ufficio. È completamente esausto.

E qui ha inizio la sua Giornata Lavorativa Tipo, che consiste essenzialmente di:
  1. fantasmagorica teoria di 8-10 caffè, il primo dei quali dodici minuti netti dopo il cappuccino di cui sopra, con annesso racconto circostanziato dell'incidente del venerdì sera seguito dalla pedissequa rassegna degli incidenti stradali occorsi a tutti i presenti
  2. riunioni telefoniche in viva voce con clienti incorporei, altrimenti note con l'esoterico appellativo di "conference call"
  3. innumerevoli ore di decifrazione nonché produzione di arcani codici allo schermo del portatile
  4. pasto menu fisso modello ecatombe, con fini puramente anestetici, in previsione del prossimo punto e cioè
  5. riunione interna allo scopo di "valutare gli impatti e le tempistiche degli sviluppi della prossima versione della piattaforma", qualsiasi cosa questo possa mai significare
Otto e quarantacinque di sera; l'uomo medio esce di buon'ora dall'ufficio per unirsi ad alcuni colleghi in una cena/cazzeggio a base di fagioli e sangria dal messicano. Ci si cimenta in tutta una serie di attività fortemente connesse all'aerofagia generalizzata e ai bicchierini di tequila, dopodiché tutti a casa.

E qui l'uomo medio può godere dell'effimero piacere di rimettersi le dita negli occhi per strappare dalle cornee le lenti a contatto (che, ricordiamo, non indossa assolutamente per motivi estetici). Seguito dalla constatazione che il numero di cifre del valore della sua glicemia è piuttosto al di sopra della media degli esseri umani dotati di pancreas. Poco male, è un buon pretesto per un'altra, comoda, iniezione serale.

Come in tutte le storie a lieto fine, a mezzanotte l'uomo medio torna alla sua stanza e accende la luce. Che ovviamente continua ad essere fulminata. Ma ormai in uno stato di karmica grazia, indotto dal fagiolo sudamericano, egli indossa di nuovo il suo pigiama di pelliccia di orso e, finalmente, cade avvinto da un sonno profondo.

Diversamente da tutte le storie a lieto fine, alle due e quarantacinque in punto l'uomo medio si sveglia, colto da postuma incontinenza. Forse causata dalla sua privilegiata condizione di diabetico, una sete orrenda lo costringe a spalancare il frigo e scolare un paio di litri d'acqua.

Ma niente paura: il sonno è potente in lui, e questo banale incidente non ha alcun significato.

Tre e quaranta: al terzo giro bagno-frigo l'uomo medio è costretto ad affrontare l'amara realtà, concretizzatasi per l'occasione in un lieve olezzo di morte proveniente dall'interno del frigo stesso. Il sonno è andato a farsi fottere, nel frattempo. Ad un breve esame scientifico dei sei oggetti presenti nel refrigeratore, l'occhio attento dell'uomo medio nota che il pezzo di provola - presente in quel sacro luogo ormai da eoni - ha assunto in effetti un sospetto colore grigio tenebra.

Si disfa del mefitico cadavere con indicibile disgusto.

Quattro e zero quattro; la speranza, si dice, è l'ultima a morire. In questo caso è decisamente morta. L'uomo medio si accuccia nel suo giaciglio, emulando improbabili posizioni fetali. È vigile come una guardia austriaca in trincea a Caporetto, al momento dell'attacco.

A questo punto, abbandonato ogni pio desiderio di un'esperienza onirica normale, l'uomo medio si ribella al suo destino. Ormai è pronto, simbolo di una generazione, a testimoniare ai suoi contemporanei tutta la ricchezza e gioia della propria, e loro, esistenza.

30.6.07

Infinito

La parola alef ha diversi significati. Innanzitutto è il nome della prima lettera dell'alfabeto ebraico; el alef è anche il titolo di un famoso racconto di Borges, ed è il nome che Georg Cantor usò per indicare la cardinalità degli insiemi infiniti.

Nessuno di questi significati, per il momento, ha qualcosa a che vedere con la storia che segue. Per quanto ci riguarda, "alef!" è quello che Rebecca Alvarez-Downing, di madre certamente argentina e padre presumibilmente americano, esclamò in un internet point di Buenos Aires alle ore 11.30 del 23 gennaio 2017, davanti alla pagina dei risultati di Google Images.

I modi e le vicende per cui Rebecca arrivò proprio in quell'internet point, per esclamare, proprio a quell'ora, la parola "alef", sono assolutamente irrilevanti. Il fatto rilevante, invece, è che a tutti gli effetti con la sua scoperta - e relativa esclamazione - l'esistenza di Rebecca Alvarez-Downing e di tutto l'universo conosciuto cambiò radicalmente.

Circa quindici minuti dopo, vale a dire intorno alle 11.45, Rebecca uscì dall'internet point rileggendo in continuazione un biglietto di carta spessa, dall'aspetto grezzo, che diceva soltanto:

"Mezzogiorno, aula 12. Se vorrà, potrà sapere tutto."

La parola "tutto" era sottolineata. Dall'altro lato si vedeva un simbolo disegnato a mano, in fretta, che era proprio quello che Rebecca aveva appena trovato: l'alef.

Bisogna precisare, a questo punto, che Rebecca aveva certamente intravisto, una o più volte, quel simbolo durante le lezioni di logica matematica; e che soprattutto aveva praticamente la certezza che l'aula 12 fosse l'aula 12 del dipartimento di Fisica, dove trascorreva da qualche mese tutte le sue giornate.

Alle 12.04 esatte – almeno, secondo il suo orologio da polso – Rebecca entrò nell'aula 12. Che era, come sempre, polverosa, piena di quel meraviglioso odore di legno vecchio, e deserta. Si sentì un po' stupida.

– E' in ritardo – la contraddisse qualcuno.

Voltandosi, poté vedere che quel qualcuno stava scendendo lentamente le scalinate dell'aula, che scricchiolavano. Non l'aveva mai visto prima.

– Mi scusi – rispose, dopo un attimo. – Chi è lei?

Si sentiva nuovamente stupida.

– Vedo che ha ricevuto il mio biglietto.

– Già. Ma non ho capito a cosa si riferisce.

– Con la parola "tutto"?

– Sì.

– Immaginavo.

Lo sconosciuto, che ora era molto vicino, fece una pausa. La ragazza stava per chiedergli qualcosa, ma l'uomo la fissò con aria infastidita. Chiuse la bocca.

– So che lei, Rebecca, sta facendo delle ricerche.

– Sì. Mi occupo di gravità quantistica.

– Universi paralleli – commentò lo sconosciuto, come se stesse pensando ad alta voce.

– No, per niente. La teoria non ha niente a che vedere con...

– No, no, certamente. Non ancora. E' troppo presto.

Rebecca, a quel punto, sorrise; è matto, pensò.

– No.

– "No" a cosa?

– Non sono matto. Lei ha appena pensato: "è matto". Si sbaglia.

Mi si leggeva in faccia, no? Continuò a pensare Rebecca. L'uomo sorrise.

– Sono costretto a dirle, mia cara, che fra alcuni anni (sei, per la precisione) farà una notevole scoperta, che cambierà completamente il vostro modo di pensare. Sono anche costretto a dirle che, se vuole, potrà conoscere in anticipo il contenuto di questa sua scoperta. Subito, diciamo.

– E lei come...

– Un momento. Non mi interrompa, la prego. Devo anche dirle che, oltre al contenuto specifico della scoperta, verrà a conoscenza di molte altre cose. Per la maggior parte spiacevoli, purtroppo. E, come ultima clausola, devo aggiungere che non potremo avere altre conversazioni.

– Non ho ancora capito cosa vuole da me.

– Una risposta. Rebecca, vuole sapere tutto?

– Il tono faustiano di questa conversazione la rende un po' ridicola, non crede?

– Avrà modo di sapere che quasi tutto è ridicolo, Rebecca. Allora, qual è la sua risposta?

– Va bene. Credo che lei sia matto, ma sarà divertente. Suppongo.

Lo sconosciuto la fissò per un attimo, poi si sedette.

– Prima di tutto, le chiedo scusa. Le ho mentito, almeno in parte.

– Cioè?

– Non farà nessuna scoperta. Non farà praticamente più nulla, diciamo. Non dopo che avremo parlato.

– Lei è decisamente matto.

– Le chiedo un piccolo sforzo. Immagini, per un momento, una storia. Pensi ad un libro, un racconto, qualsiasi cosa.

– Ok, ci sono. – Rebecca stava sorridendo.

– Ora immagini che uno dei personaggi del racconto, per volontà dello scrittore, sia onnisciente. Che sia a conoscenza di qualunque cosa.

– Bene. Ho il mio personaggio onnisciente.

– Immagini anche che questo nostro personaggio, a causa della sua condizione, sia disperato. Vive sapendo tutto ciò che dirà, penserà, deciderà, non potendo cambiare nulla.

– Una bella sfortuna.

– Sì, in effetti. Ma c'è dell'altro. Sapendo qualunque cosa, saprebbe anche dell'esistenza dello scrittore, del libro, e del fatto che egli stesso è soltanto un personaggio.

– So dove vuole arrivare. Ma...

– Rebecca, lei mi deve ascoltare. Il mio nome è Alef, e sono un matematico. Inoltre, cosa ancora più importante, sono il personaggio onnisciente di un racconto. Rebecca, noi due, con tutto l'universo che ci circonda, non esistiamo: questa realtà, come infinite altre, è solo finzione. Solo un gioco.

Alef fece una lunga pausa. Poi, riflettendo, aggiunse:

– Esistono molti altri mondi, oltre a questo.

L'occhio

21 . 4 . 19
Sono arrivato ieri. Sabato. Devo fare quelle foto oggi. Prendi nota: Tokyo mi fa schifo. Fa proprio schifo.

23 . 4 . 19
Mi è successa una cosa strana oggi. Una bambina per strada mi ha regalato una cosa. E' solo un sasso, niente di che – niente soldi, non ha voluto. Lo sto guardando da molto. Saranno due ore adesso. Basta, ho fame. Devo mangiare qualcosa.

24 . 4 . 19
Giallo. E' quasi certamente ambra. Lo sto fotografando da punti diversi. La profondità di colore è fuori del comune. Le venature sembrano infinite. Quelle molto piccole. Giallo scuro. Sembra quasi
un occhio. No, è proprio un occhio. Finisco di scaricare le foto.
Questo è proprio un buco di merda. Il wireless è lento. E' troppo lento, riesco a mandarne su solo un paio.

25 . 4 . 19
Ci sono insetti sulle pareti. Stanno camminando sul soffitto. Ne avrò ammazzati una trentina da ieri. Bastardi, sono dappertutto. Esco

26 . 4 . 19
Di nuovo in stazione. Da qui almeno riesco a mandare le altre in ufficio. Mi guardo un po' intorno. Qui siamo ancora nel '17, non si è mosso niente. E' tutto terzo mondo ormai. Dove saranno finiti i primi due?
Voglio tornare dal vecchio in albergo e farmi portare da qualcuno – devono dirmi che cosa è questa. Lo pago. Ne ho ancora abbastanza anche per gli hobby. Mi devo divertire un po'.
Sera. Di nuovo nel buco. Dai miei amici (ora ci parlo). Schifosi pezzetti di vita. Nascono dai rifiuti. Vengono fuori dai rifiuti e ci vogliono punire per averli messi al mondo. Bravi. Vi capisco. Devo pregare ora

27 . 4 . 19
Sono appena tornato – finalmente ho scoperto che cos'è. Solo un portafortuna. Dicono che la bambina l'ha rubato e me l'ha dato per non farsi beccare e ammazzare; dicono questo. Mi piace come lo chiamano – il sasso, dico – lo chiamano la tigre. Dicono che per loro è la stessa cosa; il sasso e la tigre sono uguali. Quanti anni saranno che è morta l'ultima? Sei o sette. Brutta storia.

28 . 4 . 19
Mi è successa un'altra cosa strana. Ho le mani più chiare. Mi tremano anche un po'. Forse è quella cosa, perché l'ho toccata. La dovrei buttare, ma non mi va. La metto in un panno. Magari mi passa.

Sto vomitando da due ore
Dormo

30 . 4 . 19
Basta sogni. Terza amfetamina. Sogno cose molto strane
E' come se mi stesse guardando – è un occhio, no? Mi guarda. Ecco che fa. Mi guarda tutto il tempo
Ora la vado a cercare. Mi deve dire dove l'ha presa. Le dico che l'ammazzo. Anzi, l'ammazzo sul serio se non me lo dice. Non mi reggo in piedi. Ho sete adesso

1 . 5 . 19
L'ho fatto?

2 . 5 . 19
Devo pensare. Razionalmente. Io devo pensare. Avevo le mani sporche e le ho lavate. Mi ricordo di questo. Avevo le mani sporche, le ho lavate e ho pulito tutto quanto. CHE COSA HO PULITO?
Ho dormito un po'. Ora va meglio. Probabilmente avevo la febbre. Il sasso è dentro il panno, e il vecchio non mi ha mai visto uscire da qui. Neanche una volta, mi ha detto. Ma non parla bene, sembra quasi inglese. Magari è proprio un mezzo inglese. Comunque non sono uscito. Non mi sono nemmeno mai lavato le mani, le avevo sporche stamattina.

C'è qualcosa qui
O cazzo
Forse la devo scrivere per bene. Mi giro, non guardo dentro il muro. Ho il muro alle mie spalle
C'è uno strano rumore qui dietro. E mi sembrano piccoli occhi dentro quella crepa nel muro in alto a destra - piccoli occhi che luccicano.
Ma non è niente. Non è niente, magari topi o chissà che cazzo di animale che va in giro da queste parti. Lo odio questo posto. E' che ho sentito quel rumore e mi sono avvicinato. E da dentro una cosa mi stava guardando

3 . 5 . 19
Non sono più uscito da qui dentro. Ho fame ora, ma non voglio uscire. Ho preso di nuovo l'occhio, lo guardo da un po'. Mi fa stare meglio. Sto molto, molto meglio se lo guardo. Non sento più i rumori se lo guardo bene.
Mi devo avvicinare al muro con l'occhio. Devo guardarci dentro, come ho fatto a non pensarci prima

– maggio 19
sono molto debole. ma devo esserci quasi.
è come passare la mano su uno specchio e guardare la mano che scorre dall'altra parte. si toccano – sono la stessa cosa in fondo. è una sola mano. ma cosa c'è dall'altra parte?
mi sta parlando. ha una voce sottile. la cosa dentro il muro
parla piano. in qualche modo non erano occhi – lo erano per me, che non riesco a vedere oltre il muro. ma sento cosa dice ora.
ci sono altri dove
molti altri dove. per un attimo posso vederli. non riesco più a muovermi. ma io non sono qui
quello che vedo non è fatto per noi che viviamo in basso
tu non sai cosa si prova

vedendo

17.7.05

Pensieri di un ragazzo vecchio

Finalmente, dopo tanti anni, è stanco.

Coraggio, ultimi passi; ci siamo quasi. La terra sotto i piedi e sugli stivali, vecchi, è rossa. Jeans scoloriti, una camicia larga, lo zaino diventato leggero come le ossa di un vecchio, un orizzonte sconfinato, poche nuvole, la rupe; è l'ora del tramonto.

I suoi occhi sono circondati da rughe piene di polvere, e guardano più lontano della fine del mondo.

Quello che doveva fare, l'ha fatto. Bene. Doveva andare così. Molti se li è lasciati indietro, ma non si è voltato. Molti sono ancora con lui.

In una vita si fanno cose buone e cose cattive; e tutto si sconta subito. Paradiso e inferno sono oggi, qui. Ti pesano sulle spalle. Tutto si sconta subito.

Ma è come accusare Petruska di essere un pupazzo; non ha senso. E lui lo sa.

Non ha obbedito a quel mostro che è il destino perché è un bravo ragazzo; lo ha fatto perché aveva paura, come tutti. Ora tutto è compiuto, e lui è solo un cassetto con i sogni di qualcuno dentro. Poco male. Poteva andare peggio.

Poteva dimenticare. Magari, in momenti di debolezza, l'avrebbe anche fatto volentieri. Non è andata così, ed è stato meglio per tutti.

E' ora di ringraziare il sole che sta tramontando, e di ricordare tutti quelli che come lui sono in viaggio. Quelli che camminano nella polvere. E' ora di ricordare quello che una volta, quando era veramente giovane, lo ha salvato.

Bene. Il sole è morto, e domani risorgerà. Ol' boy raccatta le sue poche cose, e sparisce nelle ombre.